di Vera Martinella
MILANO - Un genitore ogni quindici di bambini malati di tumore perde il lavoro a causa delle prolungate assenze fatte per assistere il figlio. Un dato sconcertante che emerge dall’indagine su 52 famiglie con un piccolo paziente oncologico realizzata dall’associazione Peter Pan in occasione della VII Giornata Mondiale contro il cancro infantile che si celebra il 15 febbraio. Il dramma, così, non è solo affettivo, psicologico, familiare (spesso i genitori devono separarsi: uno in ospedale, l’altro a casa fra lavoro, altri figli e «ordinaria amministrazione»), ma anche economico. E la famiglia colpita si ritrova ad affrontare spese di viaggio e di trasferta, o persino il licenziamento.
Conteggi alla mano, considerando le varie fasi della malattia (diagnosi e, a seconda del tipo di tumore, chemioterapia, chirurgia, radioterapia, seguite dai controlli del follow up), le giornate dedicate all’assistenza di un piccolo paziente sono circa 150 all’anno. Per le persone affette da patologie onco-ematologiche esiste un realtà un ben preciso riferimento normativo in materia di assistenza, integrazione sociale e diritti delle persone handicappate: la Legge 104/1992 e le sue successive integrazioni e modificazioni, introdotte dalla Legge 53/2000 e dal Decreto Legislativo 151/2001. Il problema però, come purtroppo spesso accade nel nostro Paese, è duplice. Primo, essere informati dei propri diritti (e doveri). Secondo, districarsi nella burocrazia.

«I problemi sono stati tanti – racconta Giuseppe, ex caporeparto in una fabbrica di Benevento, che ha perso il posto di lavoro per seguire il figlio con un tumore e che oggi tira faticosamente avanti con impieghi saltuari nell’edilizia -. L’Inps di zona non sapeva dei due anni di aspettativa retribuita. Si è incaricato un commercialista di scaricare la legge da Internet e dimostrare all’Inps che ne avevo diritto. Poi, però, nascevano questioni se chiedevo i giorni frazionati. Volevano sempre che prendessi i mesi interi perché altrimenti dovevano riempire un mucchio di carte e facevano tante storie. I due problemi fondamentali sono il tempo che passa dalla richiesta al riconoscimento e la durata dei permessi…». La legge 104/1992 concede congedi parentali e un assegno di accompagnamento, ma si tratta di un provvedimento «insufficiente e inadeguato» secondo Maria Teresa Barracano Fasannelli, presidente onorario di Peter Pan «perché garantisce tutele solo ai lavoratori dipendenti, lasciando fuori artigiani, lavoratori autonomi e i lavoratori precari».

Secondo l’indagine promossa dall’associazione romana (con il contributo progettuale e realizzativo offerto da SGS Italia – Ricerche di Mercato), due genitori su tre dichiarano di venire a conoscenza della legge dopo la diagnosi e quando le terapie sono già iniziate e ben uno su cinque lo scopre al termine delle cure. Altro nodo cruciale: il 60 per cento degli interessati dichiara di esserne informato da altri genitori (in reparto) e sostiene che la legge è poco o per nulla chiara. Ma i medici non vi hanno informato? «Dopo la notizia della diagnosi, vedevo il medico che parlava ma non capivo più cosa mi dicesse» è la risposta pressoché univoca dei genitori. Forse sarebbe utile – come suggeriscono dalla Federazione Nazionale delle Associazioni di Genitori dei bambini/adolescenti con tumore – fornire in prima istanza un supporto psicologico e un sostegno pratico per affrontare lo shock emotivo iniziale. E, subito dopo, dare ai genitori le informazioni necessarie a gestire la malattia nel concreto, sia dal punto di vista terapeutico sia per il mondo esterno all’ospedale.

La strada burocratica, poi, è tutta in salita: l’80 per cento dei genitori racconta di essersi occupato personalmente della pratica, ma se il 35 per cento riesce a ottenere il riconoscimento dopo sei mesi, otto intervistati su 38 dichiarano di aver dovuto attendere oltre un anno. Fra code negli appositi uffici e l’assistenza in ospedale, un genitore su cinque perde il lavoro. Bisogna anche ricordare che i centri specializzati in oncologia pediatrica sono relativamente pochi in Italia (del resto sono solo 1600 all’anno i nuovi casi di tumore infantile), per cui spesso la famiglia si trasferisce o si divide: solitamente la mamma vive in clinica, papà a casa fra lavoro ed eventuali altri figli.

Fortunatamente, un intervistato su otto riceve aiuto da colleghi o datori di lavoro comprensivi, ma in ogni caso l’80 per cento consuma tutto ciò che può (ferie, permessi e persino «malattia»). E quasi tutti i genitori hanno evidenziato motivi di disagio: disinformazione, burocrazia e tempi lunghi, trattamenti difformi fra le varie regioni, mancanza di comunicazione fra Inps e Asl (che spesso ignorano del tutto le norme di riferimento per questi casi), disagi psicologici ed economici. Così c’è chi, in attesa di delibera, non ha avuto l’esenzione per i farmaci, chi ha dovuto chiedere un prestito, chi - dopo due anni – si è ritrovato con un debito da 3600 euro perchè non aveva inoltrato la pratica all’Inps.

«Noi siamo alla quarta recidiva ed abbiamo già usufruito dei due anni che ci spettano per legge – continua Giuseppe -. Alla seconda recidiva sono stato licenziato dalla fabbrica, ero un caporeparto, e ora ho trovato, ma con grande difficoltà, un’occupazione in una ditta edile. La prima volta mi hanno riconosciuto i benefici per un solo anno. La visita per la revisione, dodici mesi dopo, l’ho chiesta domiciliare perché mio figlio stava male e ho domandato perché mi costringessero a tutta quella trafila ogni anno. La risposta? “Non pensavo che suo figlio sopravvivesse, molti se ne approfittano e continuano a usufruirne anche se il bambino è morto”. Da quel momento però mi hanno concesso il riconoscimento per tre anni. Pochi giorni fa, all’ultima visita di revisione, subito dopo la quarta recidiva, ho chiesto di poter portare solo i certificati perché il bimbo sta di nuovo male e fatica a uscire. All’Inps mi hanno detto che devono vedere il bambino per verificare personalmente che non sia morto…»

Il luogo di cura per i bambini malati di tumore non deve essere solo l’ospedale, ma anche le strutture day hospital e la propria casa. Questo è l'obiettivo da raggiungere nel prossimo futuro secondo l’Aieop (Associazione Italiana di Ematologia e Oncologia Pediatrica ). «Oggi, grazie ai progressi nella diagnosi e nelle terapie, due bambini malati di tumore su tre guariscono – sottolinea Giorgio Dini, presidente Aieop e direttore del Dipartimento di oncologia pediatrica all’Ospedale Gaslini di Genova. Ora è importante migliorare la qualità dell’assistenza, sia in reparto, con personale medico e infermieristico disponibile e preparato, sia a casa». Un’adeguata assistenza domiciliare, diffusa capillarmente su tutto il territorio nazionale, risolverebbe infatti molti problemi. Prima di tutto, com’è ovvio, i bambini vivono meglio in famiglia e, più in generale, la qualità di vita dell’interno nucleo familiare sarebbe migliore. Minori, invece, sarebbero le spese e i costi anche per il Servizio sanitario nazionale.