Si è svolto a Milano, il 24 febbraio, il convegno “Carcinoma del Pancreas: arriva anche in Italia una terapia innovativa che migliora la sopravvivenza dei pazienti”. Durante l’evento si è discusso di questa nuova terapia, particolarmente importante perché contrasta un tumore molto difficile da diagnosticare e considerato il più letale.

Ha preso parte al convegno anche Francesco De Lorenzo, presidente FAVO e ECPC, che ha riportando la voce delle associazioni di malati europee e italiane, soffermandosi in particolare sulla decisione dell’AIFA di non rimborsare la nuova cura per i pazienti ultra 75enni. “Si tratta di una decisione inaccettabile” ha dichiarato De Lorenzo “sulla quale il Direttivo di FAVO sarà chiamato a decidere per iniziative da assumere a 360 gradi”.
Di seguito l’articolo del Corriere della Sera, a firma di Vera Martinella.

 

Nuova cura per il tumore al pancreas, ma non è rimborsata agli over 75

Approvata dall’Aifa una nuova combinazione di chemioterapia e nanofarmaco che migliora la sopravvivenza dei pazienti

di Vera Martinella


I casi sono in aumento e purtroppo anche i decessi. Il tumore del pancreas, che conta ogni anno nel nostro Paese circa 13mila nuove diagnosi, resta una malattia difficile da sconfiggere e le statistiche non lasciano dubbi: a cinque anni dalla scoperta della neoplasia è vivo soltanto il cinque per cento dei pazienti. La ricerca però non si lascia abbattere e c’è una nuova cura che è stata appena approvata anche dall’Agenzia Italiana del Farmaco: la combinazione di un nanofarmaco (nab-paclitraxel) e di un vecchio chemioterapico (gemcitabina), in grado di migliorare la sopravvivenza dei malati più gravi e, in una piccola percentuale di pazienti, di arrivare anche a una remissione duratura del tumore. Ma, contrariamente a quanto deciso a livello europeo dall’Ema (Agenzia europea per i medicinali), in Italia il farmaco non verrà rimborsato agli ultra 75enni.

La nuova cura, un mix che fa ben sperare

L’efficacia di questa combinazione era stata provata da uno studio (pubblicato a ottobre 2013 sulla rivista scientifica New England Journal of Medicine) che aveva arruolato 861 pazienti con adenocarcinoma pancreatico metastatico, mai sottoposti a chemioterapia precedente, seguiti in 11 Paesi tra America del Nord, Europa e Australia. Gli esiti della sperimentazione avevano dimostrato un miglioramento significativo della sopravvivenza media dei malati trattati con i due farmaci rispetto alla terapia standard con la sola gemcitabina, una riduzione del rischio di morte del 28 per cento e «quel che è ancora più importante – spiega Giampaolo Tortora, direttore dell’Oncologia all’Azienda Ospedaliera Universitaria Integrata di Verona – c’è un quattro per cento di pazienti curati con questa combinazione che è vivo a 3 anni dalla diagnosi, un evento che non si verifica fra quanti hanno ricevuto soltanto la chemioterapia». E’ proprio su questa piccola percentuale che ora si concentrano le ricerche, per capire quali siano i motivi (probabilmente una particolare mutazione genetica o forse qualche caratteristica biologica particolare della neoplasia) che rendono alcuni malati più responsivi alla cura di altri.

Un nanofarmaco che funziona come un cavallo di Troia

«Nab paclitaxel – spiega Tortora – è un nanofarmaco, creato in laboratorio legando il paclitaxel, un chemioterapico già largamente utilizzato, all’albumina in nanoparticelle. Le particelle di albumina (la cui naturale funzione è quella di trasportare nel sangue acidi grassi, ormoni e vitamine) circolano nel sangue e sono considerate dalle cellule cancerose come un nutrimento. Sono state così sfruttate come “cavallo di Troia” per raggiungere il tumore, altrimenti assai difficile da colpire per altre vie: una volta “agganciate” dalle cellule cancerose, le particelle di albumina trasportano il chemioterapico (concentrato in dose assai massicce) al loro interno e poi lo liberano, uccidendo la cellula malata». In questo modo si blocca la proliferazione delle cellule tumorali e si rallenta (o nei casi migliori si blocca per periodi prolungati) la crescita della neoplasia.

Gli over 75 non hanno diritto al rimborso

«La cura viene somministrata per via endovenosa ed è ben tollerata dai pazienti – aggiunge Michele Reni, oncologo del San Raffaele di Milano -, anche da quelli più fragili e avanti con l’età, che hanno sopportato senza troppe difficoltà gli effetti collaterali. Un fatto fondamentale, visto che l’età media di chi ammala si aggira intorno ai 65 anni e molti di loro (oltre la metà) al momento della diagnosi hanno già un tumore in stadio avanzato». La sperimentazione su cui si basa la registrazione del farmaco non aveva posto limiti d’età alla partecipazione dei pazienti (potevano essere reclutati tutti gli adulti, dai 18 anni in su) e circa il 10 per cento degli 861 arruolati era over 75. «Anche l’Ema - spiegano gli esperti - non ha posto barriere quando ha approvato il farmaco. Mentre l’Aifa (come pubblicato in Gazzetta Ufficiale numero 30 del 6 febbraio 2015) ha stabilito che la cura, pur essendo indicata per tutti, non venga rimborsata a chi ha più di 75 anni, ritenendo che manchino dati sufficienti a provare l’utilità della cura e i suoi benefici (superiori ai rischi) nelle persone più anziane». Una decisione inaccettabile per Francesco De Lorenzo, presidente della European Cancer Patient Coalition che annuncia battaglia: «I malati hanno già dovuto attendere due anni perché la cura venisse approvata in Italia – dice – e non c’è alcun motivo per escludere una fascia di pazienti in base all’età. Tanto più che siamo un Paese che invecchia e il numero di malati colpiti dall’esclusione non è certo minimo, visto che la patologia insorge tipicamente dopo i 65 anni. Ci attiveremo per chiedere spiegazioni e perché questa barriera in Italia venga abbattuta».

Ecco perché è un tumore difficile

Il carcinoma pancreatico resta un nemico ostile per molte ragioni: «Ha una scarsa vascolarizzazione – spiega ancora Reni – il che significa che essendoci pochi vasi sanguigni è difficile raggiungerlo con i farmaci; ha una diffusione precoce delle metastasi; resiste alle terapie; è situato in una posizione anatomica complicata da raggiungere con la chirurgia; è raro ed è quindi poco agevole raccogliere dati su ampie casistiche di malati, indispensabili a far progredire le ricerche; è poco visibile all’ecografia e anche le Tac per scovarlo non sono semplici da eseguire». Come se non bastasse, mentre la neoplasia cresce in fretta, si arriva spesso tardi alla diagnosi perché in molti casi non da sintomi o si manifesta con segnali vaghi (stipsi, nausea, calo di peso, dolore) che possono essere attribuiti a molte altre patologie. C’è però qualcosa che è possibile fare per prevenirlo: tenere presente che un caso su tre dovuto al fumo, il 10 per cento dei pazienti ha un parente colpito dallo stesso male e chi soffre di diabete o è obeso è più a rischio di altri.

Fonte: Corriere.it


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