Ho letto la storia di una donna che in Veneto ha atteso per un mese la consegna, via posta, dell’esito di un esame Tac Pet. Ha così scoperto, con parecchi giorni di ritardo, di avere un tumore e di dover iniziare la chemioterapia. Al di là del singolo episodio e dei ritardi della posta, mi chiedo: davvero la consegna di referti così importanti (in cui ti viene comunicata o confermata la diagnosi di cancro, con tutto quello che questo comporta anche a livello psicologico) può essere effettuata per posta? Non è indispensabile, magari obbligatorio, che a darti una simile notizia sia un medico, che ti spieghi che cosa ti attende?


Il momento della consegna di un referto è sempre critico per il paziente, sia che si tratti di una prima diagnosi che di un successivo controllo, e dovrebbe avvenire all'interno di un sistema di comunicazione che costituisca una parte fondante del rapporto medico-paziente. A maggior ragione, nel caso dell'accertamento diagnostico di una malattia che fino a quel momento era ignorata o (solamente) temuta. Che cosa accade oggi nella pratica oncologica di tutti i giorni? Ogni ospedale si regola come vuole per quanto riguarda la consegna del referto di un esame: in alcuni ospedali lo si può andare a ritirare allo sportello, farselo spedire per posta o via mail, o consultarlo su internet con un codice riservato. In ogni caso il malato è lasciato solo con la "scoperta". Solo poche strutture prevedono, se l'esito delle analisi indica la presenza di un tumore, che l'interessato sia convocato di persona e riceva la comunicazione da un medico. Purtroppo, nessuna normativa specifica stabilisce in modo efficace il diritto ad una corretta comunicazione. Il caso di cronaca che lei cita, è un evento estremo, ma mette in evidenza un punto chiaro: la diligenza che ci si aspetta dal medico che prescrive un accertamento dovrebbe considerarsi dovuta anche nell'attività di raccolta e comunicazione del risultato di quell'esame. Tutto questo nella realtà quotidiana si scontra con il fatto che, nella stragrande maggioranza dei casi, il professionista che esegue i test diagnostici non è lo stesso con il quale il paziente instaura un rapporto, diciamo il suo "medico curante" (sia quello di famiglia che uno specialista). Dal punto di vista strettamente legale, il biochimico, il radiologo o l?ecografista non hanno con il paziente un rapporto giuridico analogo a quello del terapeuta e, pertanto, potrebbero considerare assolto il loro dovere di informazione con lo svolgimento dell'accertamento. Anche in questo caso, però, se si tratta di un operatore sanitario iscritto ad albo professionale, il suo codice deontologico dovrebbe imporre una modalità di comunicazione più corretta e umana del risultato. Per i pazienti, sarebbe certo preferibile che il medico che prescrive l'atto diagnostico si faccia carico di riceverne e comunicarne il risultato, nell'ambito del corretto rapporto medico-paziente. Una soluzione è stata proposta dall'Ordine dei farmacisti che hanno indicato la loro rete territoriale come idonea a veicolare la consegna dei referti. Lo stesso servizio potrebbe essere svolto dai medici di famiglia o dagli specialisti che prescrivono gli esami strumentali.

Elisabetta Iannelli
(Fonte: Corriere della Sera-Salute, 9/02/2014)

 

Guarda la risposta su Corriere.it

Scarica l'articolo in pdf